Sull’altipiano carsico di Trieste, in località Prosecco, fino agli anni ’90 era in attività la Gottardo Ruffoni Spa, società di spedizioni. Quel che resta sono grandi magazzini, uffici e altri spazi completamente vuoti, ormai divorati da degrado e vandali. Un luogo desolato e isolato, sul quale le informazioni sono poche e frammentarie. Ma cos’era la Gottardo Ruffoni? Non è stato facile trovare notizie sulla sua storia e sono passate settimane prima di recuperare qualche dato utile alle nostre ricerche. Tuttavia non siamo riusciti a scoprire in modo approfondito le passate caratteristiche questo comprensorio, tutto ciò che trapela deriva, purtroppo, dall’epilogo sfortunato dell’azienda, fallita negli anni ’90. Ma le origini, l’evoluzione e il lavoro che qui si svolgeva restano un’incognita. Ben vengano quindi segnalazioni o testimonianze, che possano rendere completo il nostro racconto.

Il primo passo è stato quello di cercare sul web, se esiste ancora una realtà chiamata Gottardo Ruffoni. Ed è così. Abbiamo contattato un’azienda, che ci ha rimandato a un’altra sede, a Buccinasco, che opera tra Italia ed estero e che, dopo alcune ricerche, con una mail ci precisa “L’impianto di Trieste risale a una vecchia gestione legata al fallimento Tripcovich, a cui però la nostra azienda, costituita nel 1994, non fa riferimento. L’acquisto del ramo d’azienda non comprendeva beni immobili”.
Cerchiamo quindi una notizia che colleghi Ruffoni al nome Tripcovich. Sul Corriere della Sera il 14 luglio del 1994 si legge la notizia “ll Tribunale ha anticipato tutti e ha dichiarato il fallimento della Tripcovich spa, holding del gruppo triestino. La decisione è stata presa martedì sera ed è stata notificata ieri mattina. La delibera è firmata dal presidente della sezione fallimentare, Alberto Chiozzi. A questo punto, il fallimento puo’ coinvolgere a cascata anche le controllate, Finrex e Gottardo Ruffoni, tutte società quotate in Borsa. I minuti sono contati ed è perciò probabile che il gruppo triestino preferisca tentare il gioco d’ anticipo chiedendo, per Gottardo Ruffoni, il concordato preventivo. La storia di Tripcovich finisce così , 82 anni dopo la costituzione”. Passa qualche settimana e sulla Repubblica, il 3 agosto dello stesso anno, esce la notizia ” Anche la Gottardo Ruffoni ha intrapreso la strada della liquidazione. Secondo i dati di bilancio provvisori, la Gottardo Ruffoni presentava al 29 giugno un patrimonio netto negativo per circa 12 miliardi. Il risultato operativo dei primi sei mesi chiude con una previsione di perdita di circa 800 milioni contro un passivo di circa 5 miliardi dell’ intero esercizio precedente. I debiti verso le banche sono pari a circa 93,6 miliardi”.

Cosa rimane ora? Gli ex Magazzini Ruffoni si trovano al termine di un’area adiacente la stazione di Prosecco. Alle soglie di questo grosso spazio è presente un cancello (spalancato, al nostro arrivo), con un cartello che indica la proprietà delle Ferrovie dello Stato. Si cammina lungo i binari, costeggiando alcuni capannoni ad uso presumibilmente agricolo, forse ancora attivi. Al termine di questo tratto relativamente breve si arriva a destinazione, le vie d’accesso sono multiple e piuttosto immediate. Una sbarra arruginita “ostacola” il passaggio un tempo riservato ai veicoli, mentre accanto corre la via pedonale, ormai dissestata e divorata dalle erbacce ma più che superabile. Il primo edificio è in tutto e per tutto una casa a due piani, danneggiata in più punti già all’esterno ma tutto sommato solida, a livello strutturale. Vetri rotti, rovi e calcinacci non impediscono l’accesso a ciò che un tempo era la sede degli uffici, svuotata ormai di tutto. Al piano terra le pratiche di tutti i giorni, in quello superiore le stanze dei vertici, questa l’impressione che si ha perlustrando l’edificio, in alcuni punti ben più danneggiato di quanto l’esterno non lasci presagire. Sono presenti murales con vernice decisamente recente e segni di bivacchi.

Questa prima palazzina svela un’ulteriore ingresso laterale, rivolto a due lunghi capannoni in condizioni decisamente cattive. La porzione centrale di uno di questi è parzialmente crollata, così come la relativa copertura. Su una delle pareti esterne si riesce ancora a leggere la scritta “Magazzini Gottardo Ruffoni”, mentre la struttura rivela tracce di un utilizzo riservato al bestiame. Lungo le pareti infatti corre la mangiatoia che fu, con tanto di ganci disposti in serie sopra di essa e larga corsia centrale a far da divisorio e via d’accesso. Accanto ai primi capannoni ne troviamo altri due: uno più piccolo, con tetto a spiovente e medesimo “arredamento” alle pareti, rivolto a un grande spiazzo che nasconde qualche rifiuto in mezzo all’erba, ormai alta un metro e mezzo. Sullo sfondo si intravede appena il muro di cinta degli ex magazzini, in alcuni punti seriamente danneggiato dal tempo. Il secondo è invece grande quanto i precedenti, ma in condizioni migliori. Percorso il perimetro, troviamo sul retro una ruspa ormai arruginita ed inutilizzabile, un divano, una decina di vasche riservate al bestiame, alcune vuote ed altre riempite di rifiuti, oltre agli immancabili murales. Riprendendo il cammino verso l’ingresso dal lato che guarda (letteralmente) Monte Grisa sullo sfondo, troviamo una serie di edifici più o meno danneggiati. Una piccola costruzione con una scala che conduce ad un granaio, pieno zeppo di enormi corde appese al soffitto e alle pareti, anche queste presumibilmente utilizzate per il bestiame. A pochi passi è presente una casa relativamente piccola, probabilmente una sorta di depandance per il guardiano.

Le condizioni di quest’ultimo edificio sono pessime, piante penetrate attraverso le finestre a ricoprire parte delle pareti, crepate in più punti; ragni e pipistrelli ad “animare” i cinque ambienti distinguibili, collegati tra loro da un piccolo corridoio in cui filtra l’unico spiraglio di luce disponibile. Usciamo da questo caos per trovare un’altra casetta disposta su due livelli, pochi metri di fronte a noi. Il piano superiore confina con i primi capannoni incontrati ed è, pure questo, in pessime condizioni. Una prima stanza con un vecchio piano cottura e tre armadietti da spogliatoio, quelli concepiti stretti e in verticale. Un secondo ambiente più piccolo, probabilmente un bagno, data la presenza di uno scaldabagno eroso dalla ruggine e parzialmente sradicato dal muro, oltre a un paio di piatti doccia riempiti da calcinacci. Il livello inferiore era molto probabilmente una specie di cantina o piccolo magazzino, difficile averne la certezza. Con stupore e sconcerto, all’interno scopriamo una decina di grossi barili, chiusi più o meno accuratamente. Contenitori pieni di non meglio specificate sostanze, le targhette sono troppo rovinate per essere decifrate, ma i classici simboli indicanti pericolo di morte, incendio, intossicazione, su alcuni di questi si riescono ancora a distinguere. Prima di tornare verso l’ingresso principale abbiamo ancora modo di scorgere, accanto ai barili ed in parte coperta dalla terra, una giacchetta invernale da bimba, ulteriore dettaglio triste ed agghiacciante.

Proseguiamo il cammino ritrovando la palazzina uffici, c’è rimasta da vedere solo una porzione ridotta degli ex magazzini, il capannone dove presumibilmente si caricavano e scaricavano le merci. E’ presente una piccola sala comando, piena di vetri rotti e posta accanto ai resti di una grossa pesa. Proseguendo fino in fondo troviamo un altro divano, segni del passaggio di qualche persona, chiaramente ad attività più che cessata. Su uno dei lati del capannone c’è un binario morto che rappresenta, forse più di tutti gli altri, l’indizio principale circa l’utilizzo di quest’ultima parte. Una volta arrivavano e partivano vagoni, risorse, merci, affari. Ora restano i sampietrini, le rotaie sono state inghiottite e rimpiazzate da arbusti e vegetazione. La ferrovia corre parallela pochi metri più avanti, divisa da una collinetta e nascosta da un muro di alberi. Ciclicamente, più o meno un paio di volte all’ora, passa una locomotiva a velocità spedita, sparisce in pochi secondi, lasciando dietro di sè l’eco del suo passaggio. Giusto un paio di respiri per poi tornare a quella che qui è, da diversi anni, la principale “colonna sonora”: il silenzio più irreale e spettrale che si possa immaginare.
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